Yannick: La rivincita dello spettatore, la recensione

Quentin Dupieux è uno dei registi più originali, innovativi e decisamente stravaganti in circolazione. Tutti i suoi film partono da una premessa completamente assurda. È quindi una sorpresa scoprire che il suo ultimo lavoro, Yannick, non prevede trame così surreali (come in Mandibules o Fumare provoca la tosse) e si svolge in un unico edificio, il teatro di boulevard Les Bouffes Parisiens. Il film inizia con un pubblico scarsamente popolato che assiste a una commedia convenzionale e apparentemente mediocre intitolata Le Cocu (Il cornuto). Lo spettacolo viene improvvisamente interrotto da un membro del pubblico, Yannick (Raphaël Quenard), che si alza in piedi per dichiarare che trova la commedia inaccettabilmente brutta. I tre attori in scena (interpretati da Pio Marmaï, Blanche Gardin e Sébastien Chassagne) si rivolgono con garbo ma con condiscendenza al sempre più scostante Yannick e alla fine lo convincono a lasciare il teatro. Tuttavia, mentre ritira il cappotto nel foyer, sente gli attori che lo prendono in giro, il che lo spinge a tornare indietro.  L’aspetto interessante di Yannick è che racchiude perfettamente le sensazioni che tutti noi abbiamo provato quando abbiamo sacrificato tempo e denaro per assistere a uno spettacolo teatrale o a un film che si è rivelato doloroso da guardare. Il nostro protagonista ricorre poi a misure estreme, facendo rimpiangere a tutti noi di non aver mai preso in mano la situazione con un approccio simile. Perché qualcuno dovrebbe essere tenuto in ostaggio e sotto tortura, senza nemmeno poter fare pipì, per quasi due ore all’interno di una sala? Yannick ci libera dalle catene del galateo e della civiltà che ci legano scomodamente alle nostre poltrone.  

Il film sovverte il concetto di arte o, meglio, di ciò che viene interpretato come arte nel senso più comune del termine. L’intento di Yannick è piuttosto evidente quando il personaggio principale chiede perché viene sottoposto a una tale mediocrità, visto che ha sottratto tempo ai suoi impegni per essere lì. È chiaro che non è un cliente felice e il prodotto di per sé è scadente. Come può il prodotto essere adatto al consumo se l’autore è alienato dal prodotto e, per estensione, dagli spettatori? Yannick lo spiega crudamente quando chiede di vedere il regista per il suo lavoro e scopre che non è presente. Dupieux tira fuori in modo molto strategico il concetto di spettatore passivo e cosa succederebbe se, improvvisamente, smettesse di esserlo. Il rapporto tra pubblico e arte è incessante e nessuno dei due può sopravvivere senza l’altro. Il film cattura questa intricata politica di potere in cui l’artista si pone su un piedistallo e tratta il suo pubblico come un ostaggio. La responsabilità artistica è in discussione. Se Yannick deve spendere sessanta minuti per consumare l’arte, non è forse responsabilità degli artisti consegnare un lavoro che sia degno del suo tempo? Importante è anche la riflessione di Dupieux, che si chiede se l’avidità capitalistica debba guidare l’arte, in quanto ciò significherebbe che non ci sarà spazio per la creatività e che l’uniformità dilagherà nelle pratiche artistiche moderne. 

Quentin Dupieux ha scritto e diretto una commedia di 65 minuti, pungente, robusta e molto divertente, che solleva alcune domande molto serie sul rapporto tra l’artista e il pubblico, mettendo alla prova il loro legame fino all’estremo. Una sceneggiatura intelligente, una regia ferma e alcune buone interpretazioni sono gli ingredienti principali del successo. Yannick è un’esperienza cinematografica davvero catartica e rinfrescante.  

Classificazione: 3.5 su 5.

Scritta da Corrado Agnello

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