Tomboy, la recensione

Céline Sciamma racconta la storia di Laure (Zoé Héran) che, dopo essersi trasferita con tutta la famiglia, assume un nuovo pseudonimo, Mikäel, quando Lisa (Jeanne Disson), una delle bambine del quartiere, la scambia per un ragazzo. Sebbene all’inizio Laure e Mikäel sembrino coesistere, la prima tra le mura di casa e l’altro con i suoi nuovi amici, ben presto sua madre (Sophie Cattani) viene a conoscenza del suo segreto, la costringe a indossare un vestito e a confessare la verità. Laure, devastata e imbarazzata, sembra incapace di spiegare perché l’ha fatto e il finale inconcludente del film lascia Laure ancora alle prese con la sua identità di genere. Non si tratta di un racconto conclusivo sulla transizione di genere o sul coming out ma Sciamma indaga la curiosità sulla propria fluidità di genere nei bambini. Il potere ristoratore di un’infanzia trascorsa all’aria aperta prende il sopravvento nel film, dove gli interni sono bui, opprimenti e terreno fertile per le ansie sul proprio genere mentre gli esterni sono liberi e fluidi. Sciamma stratifica una serie di opposizioni per mostrare come il film sia un gioco di dicotomie, in diretta contraddizione con il suo sguardo su come il genere sia, invece, tutt’altro.

Dando la priorità ai bambini anziché agli adulti, il pubblico diventa sempre più coinvolto in questa esperienza infantile, più empatico e mentalmente trasportato nel nostro nostalgico catalogo di lunghe estati, confusione preadolescenziale, dolore adolescenziale e un mondo che sembra un po’ troppo da gestire. Sciamma si è preoccupata di dare vita all’infanzia in tutti i suoi aspetti, dichiarando di voler creare “un film qui soit sur les pulsations de l’enfance”; letteralmente, un film che batte al ritmo delle “pulsazioni dell’infanzia”.

L’ambiguità del genere e della sessualità di Laure è un tema ricorrente in tutto il film, che rende farseschi i rigidi limiti imposti dalle opposizioni binarie stabilite dalla società. L’uso dei colori da parte della regista ne è un esempio. L’opprimente spazio domestico è nettamente differenziato per genere: la camera da letto di Laure è blu, mentre quella della sorella minore Jeanne (Malonn Lévana) è di un vibrante rosa; l’ambiente libero degli esterni è di un verde neutro, fresco e pieno di vita. Laure, che apparentemente è a cavallo tra i due sessi o non è sicura della sua identità di genere, indossa sempre il rosso o il blu, o talvolta entrambi; la dualità del suo guardaroba incarna la mascolinità sensibile e femminilizzata del suo alias Mikael. Lo spazio domestico è anche il luogo in cui Laure elabora diverse strategie performative: si costruisce un finto pene con la creta da inserire nel costume da bagno; sfoggia baffi finti per il divertimento della sorella; si lascia truccare, con suo grande disappunto. Queste attività di conformità al genere si dissolvono quando Laure gioca a calcio con i bambini del quartiere, a torso nudo e libera, con il suo corpo prepuberale che non rivela nulla ai suoi nuovi amici. La natura si adatta a lei, la incornicia, viene rivelata la scarsa importanza delle apparenze, sottolineando solo la sua vitalità.

Tomboy si colloca in netta opposizione all’isteria che circonda i generi non conformi nella nostra società contemporanea. Invitando lo spettatore a sperimentare la questione del genere dal punto di vista di Laure, Sciamma decostruisce e convalida le sue esperienze, attraverso una regia minimalista usata come braccio di sostegno per raccontare fedelmente, gentilmente e responsabilmente la storia di Laure e quella di milioni di bambini.

Scritta da Corrado Agnello

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