American Fiction, la recensione

Da europeo bianco, recensire un film come American Fiction significa entrare in un campo minato. Perché vuol dire avere a che fare con un tipo di battaglia che oltreoceano è estremamente viva. Parlo della lotta a quell’ipersensibilità (ora sinonimo di ipocrisia) che porta un paese come gli Stati Uniti a fare i conti con il delicato utilizzo del linguaggio che definisce il loro essere. American Fiction è la storia di Thelonious “Monk” Ellison (Jeffrey Wright, candidato all’Oscar come miglior attore protagonista), professore universitario di lettere, nero, stufo della narrazione che si fa del popolo afroamericano nella letteratura. Lui stesso è autore di libri che puntualmente vengono relegati negli scaffali targati “studi afroamericani” (solo perché a scriverli è un nero), nonostante i suoi lavori si discostino notevolmente da quella rappresentazione stereotipata che gli stessi neri americani si ostinano a rimarcare. A provarlo è il successo del momento We’s Lives In Da Ghetto, scritto da Sinatra Golden, farcito di personaggi, situazioni, disagi, e terminologie volte esclusivamente ad accontentare un pubblico di bianchi che non vuole leggere nulla di nuovo, ma solo ciò che già si immagina di un determinato popolo. Temporaneamente allontanato dalla sua università e frustrato, Monk decide di stare al gioco e – per farsi beffe dell’editoria – scrive un libro che, con toni ancora più marcati, rispetta tutti i topoi del “nero-americano-di-strada-tipo”, firmandosi con uno pseudonimo, intitolandolo My Pafology (con la F al posto del TH, come da slang). Inutile dire che il libro sarà un successo clamoroso.

Favorito per la vittoria dell’Oscar alla miglior sceneggiatura non originale (adattamento del romanzo Erasure di Percival Everett), American Fiction è un film che colpisce per il suo essere una commedia tagliente, dai dialoghi pungenti nel trattare un argomento così delicato, specialmente negli USA. Si tratta dell’opera prima di Cord Jefferson, sceneggiatore televisivo, dunque particolarmente bravo a tenere lo spettatore incollato alle parole dei suoi personaggi. La vita del tormentato Monk si divide tra il successo editoriale inaspettato (per lui) del libro e il complicato rapporto con la sua famiglia, dalla madre gradualmente mangiata dall’Alzheimer (e che non è più la stessa da quando il marito, padre di Monk, si è suicidato) al fratello alle prese con alcool e cocaina. La società e la sfera privata incanalate nella figura di Monk.

American Fiction recensione Oscar 2024

Le due sfere narrative del film viaggiano per vie parallele e a livello di ritmo è come se fossero una grande altalena: il racconto del dramma familiare si alterna perfettamente alla satira che l’autore fa descrivendo l’esaltazione degli editori bianchi, che si approcciano al lavoro di Monk con un entusiasmo volutamente sopra le righe. In questo il montaggio gioca un ruolo particolarmente importante, e lo spettatore non può che mantenere alta l’attenzione per tutte e due le ore del film. Con American Fiction, Jefferson prende di mira l’ipocrisia della società americana. Lo fa magistralmente già dalla prima scena, in cui una studentessa bianca si mostra indignata al solo leggere sulla lavagna la n-word, scritta dal professor Ellison in riferimento a un testo in cui veniva utilizzata (dunque per quale motivo bisognerebbe fingere che non sia mai esistita?); “La trovo offensiva”, dice la studentessa. “Io ho superato la cosa, di sicuro puoi farlo anche tu”, ribatte Monk. Già da queste prime battute, il sottoscritto è stato rapito dalla presa di posizione dell’autore verso l’inutile perbenismo – il vuoto intellettuale spacciato per progressismo – spesso e purtroppo dilagante nei più giovani. Ma procedendo con la visione si scopre che a funzionare più di ogni altra cosa in American Fiction è la scrittura molto più complessa e sfaccettata dei personaggi, i quali sono pieni di contrasti, reali nel tentativo di avvalorare ognuno la propria tesi, arrivando alla fine a uno scontro che non vede né vincitori né perdenti; semplicemente animi inquieti dalle idee forti, ma non per questo inconfutabili. Lo capisce Monk nel magistrale dialogo finale con Sinatra, da lui tanto criticata, ma non per questo automaticamente nel torto, nonostante la volontà dello spettatore di arrivare a una vittoria “ideologica” del protagonista.

In questo American Fiction è un film che dimostra quanto il cinema sia ancora in grado di stupire lo spettatore, fregarlo con il gioco della narrazione, che ti fa credere di starti accompagnando verso una determinata direzione, per poi svoltare completamente e sorprenderti, cosa che l’opera prima di Jefferson fa con grande maestria con un finale tutto da scoprire.

Il film è disponibile su Prime Video.

Classificazione: 4 su 5.

Scritto da Marco Nassisi

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